Vetrina

Prima pagina delle opere vincitrici

PRIMO PREMIO – A BOCCA CHIUSA di Mario Zuchi

Mia zia, quella puttana, abitava in un paesino della Lessinia. Sono posti da vedere! e ancora non avreti capito che cosa significasse.
Tanto per dire, ci viveva quel Maso che uccise i genitori per impadronirsi dei soldi, della “roba”, e là tutti sapevano benissimo di che si trattasse.
La Lessinia è formata da una serie di rughe che salgono dalla pianura Padana incuneandosi verso nord, il “profondo Nord” per certi versi simile al profondo Sud. L’ambiente ha, e aveva, anche un suo fascino, ricordava certe zone minerarie scozzesi, ma incombeva sulla gente che vi abitava. Poteva essere la stessa dell’Alabama, della Louisiana: gente rude che badava al sodo, alla “roba”. Nello stesso tempo gente che leggeva poco, i più acculturati la Selezione dal Reader’s Digest, gli altri Famiglia Cristiana e La gazzetta dello sport.
Forse la difficoltà dei collegamenti, nel tempo, aveva isolato tra loro i paesini che costellavano le pendici delle colline e, nei paesi, le persone stesse.
D’altronde poco importava, tutti a lavorare, chi nella terra, chi a produrre in casa gli scarponi per le fabbrichette dei più intraprendenti.
Mia zia aveva anche un negozietto di merceria e abbigliamento, anni ’60. Aveva anche la “roba”, cioè soldi in banca, e due tre appartamenti. Come ci riusciva con un negozietto? Prestando soldi a strozzo, e risparmiando sulla spesa, che tanto tutti i questuanti venivano a portare pollastri e verdure, e vino.
Mia zia era avarissima, ma, poiché era un carattere condiviso con tutti, nessuno lo notava. Avari in tutto, sentimenti compresi, però tutti figli di Nostro Signore, abbonati alle chiese che svettavano in ogni paese, lustre di cera per terra e candele in cielo.
Il marito di mia zia, una specie di grande puffo con gli occhiali di celluloide, e con un vocino strozzato, girava con una vespa grigia, per conto del governo, non ricordo a far cosa. Ma girava girava, e raccoglieva salami e pollastri da mettere nei tre freezer di casa, e soprattutto trovava clienti per la moglie.
Una bella coppia davvero, efficiente e complice. Non ebbero figli, non so se per via del vocino, o per misericordia di quel nostro signore.
Poi lui è morto, e lei è rimasta sola nella grande casa. Abitava solo di sotto, tra un cucinino, una camera e una specie di garage con i tre freezer sempre pieni. Ricordo che quando cucinava, quel poco, stava ben attenta a che la fiamma del gas non andasse oltre il fondo della pentola, per non sprecare. Il piano superiore, invece, era addobbato con tutto il necessario borghese di quegli anni, compresi mobili finto rococò e divani in pelle, ma tutto ancora sigillato, e inusato, nella plastica originale.
In tante volte che sono passato di là, mai ho visto in uso il piano di sopra.
Insomma, a un certo punto anche lei si era fatta vecchia, con il mal di cuore, e senza forze, così si mise in casa una nipote che le facesse da badante a vitto e alloggio, solo vitto e alloggio, e la speranza di ereditare. Anche perché la zia, la vecchia, era l’unica sopravvissuta dei quattordici fratelli, senza contare quelli nati morti.
Si parla dei primi del ‘900, si usava così nelle zone rurali: ogni colpo valido un figlio. Era l’assicurazione-vita dei vecchi, quando la pensione era una cosa di città, o proprio non esisteva. Figli che avrebbero mantenuto in casa i vecchi, che avrebbero lavorato gratis i campi, magari aggiungendoci il lavoro nelle prime fabbriche locali e portando lo stipendio in casa, sperando di avere, alla fine, una fetta del tutto. I maschi speravano campi e case, le femmine una dote che rendesse possibile un matrimonio.
I più gracili dei figli erano destinati invece al convento o al seminario, a preparare un posticino in Paradiso per tutti, e sarebbero stati gli unici ad avere una qualche istruzione.
Infine, i più avventurosi, fatti due conti, non credendoci troppo, e saggiamente, prendevano la via dell’emigrazione, specialmente la Francia o il Belgio delle miniere.

SECONDO PREMIO – MARE DI LAPISLAZZULI di Laura Giorgi
 

LARA
La prima volta che lo vide era il novembre millenovecentoottanta e lui si chiamava ancora Nicola Nascimbeni. Era un momento critico in quanto la prof di matematica l’aveva appena invitata alla cattedra, a risolvere un rompicapo di cui non aveva la più pallida idea, e proprio mentre il gessetto cominciava a squagliarsi fra le dita e la lavagna a sbadigliare, avevano bussato alla porta.
-Mi scusi, professoressa, è arrivato il nuovo alunno.
Il custode dall’andatura sbilenca entrò, seguito da un ragazzo piuttosto alto, pallidino, con un ciuffo di capelli neri assolutamente fuori controllo.
-Entra pure, caro. Come ti chiami? Scegliti un posto. E tu – rivolta a lei – puoi andare, tanto vedo che hai perso la concentrazione.
Lara andò verso il proprio banco ringraziando la Madonna e sorridendo al nuovo arrivato che si era seduto proprio in fondo, accanto a quel decerebrato di Giacomi con cui nessuno voleva condividere nulla.
-Beh, che vi pare del nuovo? – disse Beatrice a ricreazione,  al centro del capannello di ragazze dai grembiuli neri.
-Orrendo. Pieno di brufoli – disse Grazia, aspirante Miss Italia.
-Ma no, un pochina di acne… però è alto, moro – disse un’altra.
-Guardalo lì, a confabulare con Giacomi, manco si conoscessero dalla nascita.
I due ragazzi parlottavano alla finestra. Gli altri erano scesi in cortile.
-Sarà uno sfigato come lui.
-Un terrone come lui!
-Giacomi non è terrone. Ripetente, come lui.
-A proposito di sfigati… tu Lara che ne pensi?
Lara mise via il panino si voltò a guardare le sue compagne.
-Ti piace, eh? – disse Grazia – te lo faresti?  Vuoi che ci metta una buona parola?
 -Tanto i brufoli non te li attacca… se mai, si prende le pulci!
Lara si allontanò dalla comitiva sghignazzante e contemplò il nuovo compagno, di sottecchi, col ciuffo disordinato nel vano della finestra.
*
-Se le sono date. Se le sono date di santa ragione.
-Più che altro, Sassi le ha prese. Sembra che gli abbia rotto il naso.
-E ora? Lo buttano fuori?
-Boh. Sono tutti dal Preside. Il babbo di Sassi e la mamma di Nascimbeni.
-Sì, quella specie di zingara con le sottane nere fino ai piedi.
-Ma che gli ha detto?
-Gli ha dato del mafioso.
-Embè? Lo sanno tutti che stanno qua in soggiorno obbligato.
Lara alzò gli occhi dalle mattonelle consumate del corridoio e guardò le compagne con odio.
-Non è vero niente! E in ogni caso, anche se il padre è mafioso, lui che colpa ne ha?
Si voltarono tutte e Beatrice mosse qualche passo verso di lei, con quella smorfia da pesce all’amo che la contraddistingueva.
-Ah sì? Ah sì, povera piccina, hai ragione, le colpe dei padri non ricadono sui figli, vero?
Beatrice era così vicina da alitarle sulla faccia.
-E nemmeno quelle delle madri, eh? Altrimenti ora penzoleresti da un trave del soffitto di casa, vero, sfigata di merda?
Lara la spinse via e corse a chiudersi in bagno, nel bagno fumoso dove non andava nemmeno per pisciare.
*
Il sole batteva implacabile sui sampietrini del corso deserto. I negozi stavano chiudendo e si potevano sentire i passi dei due ragazzi che camminavano affiancati.
-Mi sa che perdo l’anno – disse Nicola.
-Per la sospensione? – chiese Lara.
-Ma no. Con le vacanze di Pasqua se ne sono dimenticati tutti.
-Meno Sassi.
-Sassi è uno stronzo. Comunque non me ne frega, tanto quando torno giù mi metto a lavorare con mio papà.
-Che cosa fa?
Nicola la guardò severamente.
-Anche tu con questa storia? Fa il pescatore. Ha una barca grossa da pesca. Reggimi i libri che vado al vespasiano. I bagni della scuola fanno più schifo.
Eccola là la sfigata che esce dal bagno. Guarda, ha la goccia di pipì che le cola giù per le gambe. Fa veloce perché le dà fastidio il fumo. Non ci si siede nemmeno. Per forza! Fa schifo al cesso.
Lara aspettò pazientemente, seduta sulla panchina di pietra.

TERZO PREMIO – IL TEMPO SULLE MERIDIANE di Nunzio Buono

Visioni

Un tempo di fine
l’attimo che posa, l’ombra risoluta
il grido dall’ultimo piano
il vento arreso.

Le pareti di carta conservano
geometrie damascate;
dietro le ultime voci una data appesa
l’orologio al buio di una cucina
il piatto della cena di ieri
un bicchiere di labbra, il palmo di talco
e lo specchio senza una voce.

Sul letto
un vestito di donna e visioni d’amore.

Ti penso qui accanto

E sentirsi d’uccelli
quando fuori dal nido hanno il ramo.
Un sospeso di vento, un richiamo di voci lontane
un ricamo di neve sul fondo del rosso
un fiore gemmato in ricordo rimasto tra i versi.

Così
mentre il ramo mi accoglie
e dal vetro mi guardi
e la neve si lascia cadere in ascolto.

Mi dici in silenzio:

– ti penso qui accanto
un giorno a Natale.

MENZIONE SPECIALE – AI CONFINI DEL BARATRO di Francesco Banini

East River Dr Parking – ore 3 del mattino, 3 maggio 2009
Il piano era stato preparato e discusso nei minimi dettagli. Sarebbero partiti con il favore delle tenebre e nessuno li avrebbe mai più visti. Con le due macchine prese a noleggio, avrebbero guidato fino al JFK tenendosi a distanza di sicurezza. Da lì sarebbero volati in Turchia, a Istanbul, per recuperare quello che lui aveva trovato. Grazie alla rete di contatti che frequentava regolarmente, si era già accordato con un potenziale compratore. Con il ricavato avrebbero cominciato quella nuova vita insieme che tanto desideravano, lasciandosi alle spalle tutto ciò che erano stati costretti a sopportare.
Era una notte fredda, quella notte in cui tutto cambiò, più invernale che primaverile, ma Connor Moselly, per tutti Moze, sembrava non essersene accorto. Non sentì il vento forte che dall’East River gli scompigliava energicamente i corti capelli castano chiaro e gli faceva colare il naso. Non si curò del cielo minacciosamente nuvoloso che incombeva sopra di lui. Camminò a passo deciso lungo la Prima Strada, senza fretta ma neanche lentamente. La città che non dorme mai aveva dato qualche timido segnale di vita anche alle prime ore del mattino: una sirena dell’ambulanza, una saracinesca che si alzava, qualche macchina che procedeva sonnecchiando, qualche cliente affetto da insonnia nella tavola calda all’angolo. Ma i suoni giungevano ovattati in lontananza e lo divennero ancora di più quando Moze superò la Prima strada e girò a est sulla 34esima. Solo l’odore acre dei vapori che emergevano dai tombini non cessò.
Si asciugò il naso con un braccio, frugò tra le tasche del giubbotto di pelle finché non trovò il pacchetto di sigarette con dentro l’accendino. Fece un paio di tiri profondi e frettolosi, poi gettò il mozzicone, il tutto senza mai modificare l’andatura. Si voltò furtivamente. Gli era sembrato che una macchina svoltasse nella sua direzione e un brivido gli corse lungo la schiena. Restò per un attimo immobile e tutto intorno a lui seguì il suo esempio.
Calmati, campione. Pensò tra sé. Non è il momento di farsi prendere dal panico. Aspettavi da sempre questo momento e hai organizzato meticolosamente ogni dettaglio. Non mandare tutto a puttane.
Si impose di rilassarsi e proseguì più velocemente verso l’ingresso pedonale del parcheggio. Non si era accorto della figura che lo stava seguendo e che era riuscita a infilarsi dietro al vicolo un attimo prima. Un addetto della sicurezza contemplava con occhi semichiusi uno schermo di fronte a lui. La targhetta con scritto Gomez non lasciava dubbi sulle sue origini ispaniche. Non smise di guardare lo schermo né mostrò alcuna reazione quando Moze si avvicinò alla postazione e lo scrutò dall’alto del suo metro e novanta. Moze non si scompose, salutò educatamente l’addetto e gli mostrò il voucher della prenotazione e un documento. Gomez pescò un paio di occhiali dal taschino, occhiali che avevano disperatamente bisogno di una pulita. Li inforcò, strizzò per un secondo gli occhi verso il foglio e lo confrontò con il documento. Allungò il braccio verso un pannello alle sue spalle e lasciò cadere un mazzo di chiavi con il logo della Chevrolet e una targhetta che indicava la posizione della macchina. Moze fece per afferrarlo ma l’addetto lo precedette sventolandogli un modulo e una penna sotto il naso. Anche questa volta Moze non fece obiezioni. Firmò, prese ciò che gli spettava e sgattaiolò dentro il parcheggio, dopo un rapido cenno di assenso.
Una nuova ondata gelida lo investì e questa volta se ne accorse. Il parcheggio era scoperto, facile bersaglio del vento che soffiava tra i grattacieli di Long Island, che svettavano dinnanzi a lui.
Il suo inseguitore scivolò tra due suv e restò nell’ombra.

MENZIONE SPECIALE – PELLE NUDA di Alessandra Zenarola

Febbraio 2004.
Vado a trovare mio marito Jacopo una volta alla settimana.
Ci vado il sabato; salgo sul treno alla stazione di Udine alle undici e mezza e riparto da Treviso a metà pomeriggio. I miei sabati sono tutti uguali. Il panino al volo, il cesso traballante, i finestrini sporchi, i biglietti online. Treviso è una città gentile. Non la ricambio, la attraverso senza neppure concedermi un’occhiata ai portici, al fiume, alle vetrine dei negozi.
Di solito al ritorno sul vagone siamo in quattro gatti, il sabato pomeriggio mancano i pendolari, gli stranieri delle fabbriche e gli studenti. Durante il viaggio leggo, dormicchio. Mi deprimo.
Quando arrivo a Udine è buio fitto e non me la sento di chiudermi in casa a macerarmi nella malinconia. Così, e ormai è diventata un’abitudine, prendo la macchina parcheggiata dietro alla stazione, guido per un paio di chilometri e mi fermo al bar dei cinesi. Quattro gatti anche al bar, uomini soli che giocano la schedina e qualcuno che compra vaschette di gelato. Ordino sempre lo stesso aperitivo, un Campari soda, e lo stesso signore con il viso da adolescente deposita sul mio tavolo il Campari, un bicchiere d’acqua e lo scontrino.
Ci sono affezionata al bar dei cinesi perché il giorno in cui hanno arrestato Jacopo non ho trovato niente di meglio da fare che rifugiarmi lì. Lo hanno arrestato alle sei di mattina, quando il palazzo dove abitiamo era ancora addormentato. Per discrezione, credo, per non fare casino. Jacopo preparava la borsa con la tuta, una camicia, lo spazzolino da denti, e io mi aggiravo tra le stanze con un maglione infeltrito ficcato sopra il pigiama. I poliziotti stavano in piedi vicino alla porta, non so se più imbarazzati o più menefreghisti. Stavo quasi per chiedergli se volevano un caffè. Quando l’ho raccontata a mia sorella Carlotta, la storia del caffè, si è spanciata dal ridere. «Guarda, tu sei proprio scema. Non dico ingenua, ma proprio scema. Ti arrestano l’uomo e tu gli offri il caffè! Mah.»
Non mi ricordo se Jacopo prima di andarsene mi ha abbracciata o meno, ricordo solo che lui e i poliziotti sono usciti da casa nostra quando albeggiava. Due ore dopo ho telefonato in ufficio, mi sono finta malata e sono tornata a letto. Non mi ricordo se ho mangiato, se mi sono fatta una doccia, non ho mai risposto al cellulare e neppure al telefono fisso. Però alle sei del pomeriggio mi sono lavata e sono uscita a camminare, così, senza meta nel gelo sguarnito dei primi giorni di gennaio e nel mio girovagare sono finita al bar dei cinesi. Faceva un gran freddo e la roggia di fronte al bar sprigionava vapore gelato. Avevo bisogno di stordirmi e così mi sono bevuta tre Campari soda, uno dopo l’altro, tamponati solo da un crocchiare di patatine e da un pugnetto di olive gommose. Un tizio seduto al tavolino di fianco al mio non mi staccava gli occhi di dosso. In un’altra occasione sarebbe stato imbarazzante, ma quella sera non me ne importava nulla.
Per rientrare a casa ho chiamato un taxi; ero troppo sbronza e la temperatura troppo bassa per farmela a piedi.
Ho pagato il tassista, sono salita in ascensore fino al terzo piano.
L’appartamento era disordinato e vuoto, il letto sfatto, la nostra gatta Armandine affamata.
Jacopo mi mancava già terribilmente.
Non sapevo perché lo avevano arrestato.
Avrebbe potuto dirmelo soltanto lui, e invece non mi aveva detto niente.
***
Faccio sosta al bar dei cinesi anche oggi.
L’hanno rilevato da poco e sono ancora maldestri; prima lo gestiva gente del mestiere e il gelato era uno dei migliori in città. Adesso ti scodellano dei gusti anonimi, e spruzzano sulla coppa un monticciolo di panna montata.
La pausa al bar ha un effetto cuscinetto tra lo stress della visita in carcere e la chiave infilata nella toppa. Inoltre non ho ricordi con Jacopo.

MENZIONE SPECIALE – ATTRAVERSANDO LE PORTE DI CARTA di Giuseppe Nigretti

1.i
Quando, da memorie senza più carne,
nel buiore andiamo all’ultimo altrove,
cercando – sul sentiero delle andate
stelle – l’ardore dell’umano sole,
nella sera spenta avanza
la cagna di pietra bianca
latrando dal cielo gli anni di fiele
a noi: essere e mano. Sempre in attesa,
sul pontile del pensiero, di un carme:

1.ii
barca di carta per nostre migranti
parole – dal ponente al pio oriente
per vedere il velo formante il vero
dei vedici da udire sul sentiero
del levante – senza più navigare
il naufragio per amare derive.
Già sepolte nell’aria delle rime
dalla poeta mano che ora sogna
un mare fatto calmo da scavare.

1.iii
Da scavare nell’altrove del sole
che sull’aurora s’innalza tuttora,
senza scemare mai la secca notte
dell’andante essere nostro
verso il naufrago tramonto.
E là, a carte, i veda accogliamo
per assentarci dall’occidente
vestito di luci e di plastiche
scorie del perente capitale.

MENZIONE SPECIALE – NOSTRO È L’IMPERO di Massimiliano Falavigna

Siamo sulle tracce di Travelli Filippo da ormai una settimana. Non so nemmeno che faccia abbia, ma se somiglia al resto della famiglia, deve avere un volto magro, spigoloso e severi occhi scuri. Qualcuno ha parlato di una mente fertile e brillante, una cultura smisurata e una personalità mite. Mi aspetto di trovarlo nella sua toga da avvocato, con il sorriso fiero e sereno delle persone di cultura. Ma questi elementi non ci aiuteranno a trovare Travelli Filippo, visto che è morto da quasi un secolo. Tutto quello che abbiamo è la pista suggerita da nonna Matilde, che purtroppo non è molto in sé.
Eravamo in salotto, intenti a sfornare ipotesi sulla collocazione geografica del fu Travelli Filippo, quando nonna Matilde, di solito borbottante in un angolo come una caffettiera sul fornello, si è improvvisamente animata e ha gridato con la sua voce ruvida:
“Filippo Travelli è schiattato, non lo troverete mai. Mai!” Probabilmente il nome, una parola, qualcosa le aveva riattivato qualche sinapsi e l’aveva convinta che volessimo parlare col defunto. Ci siamo voltati tutti, e mia moglie le ha chiesto se per caso ricordava dove fosse sepolto. Nonna Matilde ci ha puntato contro il bastone, sorretto dalle sue mani nodose, e ha gridato:
“Che Dio mi fulmini adesso se riuscirete a parlare con lui! L’ultima volta che l’ho visto era in foto al cimitero di san Lorenzo, bell’e morto da anni. Adesso è polvere, povere, polvere!” tuonò tre volte. “Lasciatelo in pace, maledizione!”
Così, eccoci al cimitero di san Lorenzo.
Mi muovo dribblando lapidi, statue, angeli, simboli, memorie: “poeta”, “eroe”, “si batté per la patria”, “il nostro angelo”, “la nostra guida”. Mentre percorro la parete sud, mi dico che nessuno osa incidere la verità sulle lapidi. Mai che si legga, per esempio, “fedifrago”, “antipatica”, “bugiarda”, “pettegolo”, “perse tutto al gioco”, “beveva come un elefante”, “fumava come una ciminiera”. Scorrono nomi sotto i miei occhi in un interminabile elenco: Anna, Amilcare, Bruno, Santino, Marco, Evelina…
A proposito, cosa diranno di me, sulla lapide? E proprio mentre ci penso, trovo Filippo Travelli.
Il problema di girare per cimiteri in continuazione è che alla fine diventano come qualunque altro posto socialmente neutrale, come le poste o la motorizzazione: luoghi che mettono i brividi ma nei quali prima o poi ci si deve capitare. Ed essendomi abituato alla presenza costante dei defunti, contravvengo al particolare rispetto che merita il cimitero gridando a mia moglie, che è molto lontana:
“Claudia, eccolo! È qui! L’ho beccato!”
Una signora mi fissa con stizza, come per dire: “Ma come si permette di gridare come un pescivendolo al mercato?”
Con un cenno della mano domando perdono e quella ci mette un bel po’ a togliermi lo sguardo rabbioso di dosso. Guardando la foto in bianco e nero del defunto, penso: “Che figure mi fai fare, Filippo? Porca miseria.” Mia moglie mi raggiunge trafelata.
“Siete proprio fatti con lo stampo, in famiglia. Guarda come ti somiglia” dico, mentre lei scruta la mia scoperta.
“Infatti non è il Filippo Travelli giusto. Ma non vedi che questo è morto quarant’anni fa? Il nostro è morto a fine anni venti.”
Oltre al danno, la beffa. Mi immagino la mia lapide:
“Fu cafone. Disturbava sempre nei cimiteri”.
La ricerca riprende per alcuni minuti. Ettore, Candido, Samanta, Gianmario, Katia, Romina…
A proposito, come siete morti? Non faccio nemmeno tempo a pormi il quesito, che Claudia si sbraccia da lontano. La raggiungo.
“Guarda un po’, qui c’è la prozia Antonietta, 1907 – 1999.” Volto spigoloso, occhi di bragia. “Era così arcigna” ricorda infatti Claudia. Io non l’ho mai vista, la prozia, ma sulla durezza del suo carattere sono più che convinto dalla fotografia. “Arcigna con tutti, ma non con me” cinguetta Claudia. “Con me era tutta cerimonie e pasticcini. Se non entravi nelle sue grazie, però, non te ne faceva passare una.”
Claudia segna nome e date sul quaderno e un nuovo tassello del suo albero genealogico è fissato. “Infarto” conclude.

MENZIONE D’ONORE – LE GAZZELLE DI TAVERNA STRUGA di Anna Causser

Il picchio e me
C’era una volta un picchio. E questo picchio amava picchiettare saltellando da un albero all’altro. Ma il suo becco faceva così rumore che le persone che abitavano lì attorno un giorno gli dissero Picchio, non puoi continuare a fare tutto questo rumore, se non la
pianterai noi ti cacceremo. Così il picchio, che non aveva nessuno da cui andare e che quel parco era ormai la sua casa si disperò, perché non poteva fare a meno di picchiettare, ma nello stesso tempo gli uomini non volevano che lui facesse rumore. Allora
andò in cerca dell’asino falegname e gli disse Ti prego, aiutami a non fare rumore mentre picchietto sugli alberi. E L’asino falegname gli costruì un tappo adatto al suo becco, così il picchio poteva picchiettare quanto voleva e di rumore non ne avrebbe fatto neanche un po’. Solo che un giorno incontrò una picchia, che gli disse Tu non ti accorgi che da giorni ti guardo, e volevo dirti che di notte ti sogno che picchietti negli alberi senza far rumore.
Il picchio guardò la picchia e la trovò bellissima.
Così le disse Io per te potrei picchiettare su qualsiasi albero facendo più rumore di cento picchi messi insieme. E allora la picchia gli disse Togliti il tappo, e fammi sentire. Così il  picchio si tolse il tappo e cominciò a picchiettare. Picchiettò come un matto fino a sera, saltando di albero in albero con gli alberi che gli dicevano Basta, picchio, che prestocadiamo! La picchia innamorata ascoltava il picchio svolazzando, con le ali che le diventavano grosse d’amore. Ma poi la gente uscì dalle case con le forche e i fucili, perché
non sapeva apprezzare il picchiettare del picchio. E allora la picchia baciò il picchio nel becco e gli disse Vieni con me. Dall’altra parte del bosco c’è un posto dove potremo picchiettare fino a quando il sole tramonta. E ci sono due ragazzi che ogni sera portano le sedie sotto agli alberi. Per ascoltare noi che picchiettiamo.
Gli anni più belli della mia vita sono stati quelli in cui scrivevo storie di animali e disegnavo la gente. Non proprio tutta la gente, solo alcuna. E di quelle persone che volevo disegnare ne prendevo solo un pezzetto. Un pezzetto piccolo, come le mie storie, che erano così corte che finivano subito, e allora mia madre diceva E’ come se a un certo punto ti cadesse la penna. E tu non la raccogli più.
Chissà perché facevo così.
Mi piaceva questa cosa delle storie brevi, e dei disegni a metà. Avevo il taccuino pieno di tante parole e di tanti disegni, e le pagine erano abitate da inchiostri diversi.
Soprattutto mi piaceva camminare. E guardarmi intorno. Rubare l’immagine di uno stivale.
Tanto alto da sembrare un trampolo. Oppure una borsa. Tempestata di pietre. Una smorfia. Uno sguardo. Che tutto diceva di quell’uomo. Con la matita disegnavo le mani di quelli che dopo il lavoro trascorrevano il loro tempo dall’estetista. Uomini vanitosi. Tanto vanitosi che nemmeno dieci donne tutte insieme avrebbe potuto competere con loro. E quelle mani erano perfette da farti venire i brividi. Erano mani da morto. Bianchissime e distanti. Le disegnavo, e poi ci scrivevo sopra un nome, una via. Quella in cui le avevo viste. O il numero dello scontrino che avevano lasciato cadere al bar. Disegnavo tutto ciò che vedevo. E se c’erano delle cose che mi colpivano ci scrivevo accanto bello, fantastico,
il migliore. Insolito. Altrimenti un numero.

MENZIONE D’ONORE – POSTO IN PRIMA FILA di Domenico Mantovani

– Posso sedermi qui?
– È il suo posto?
– Non saprei. Non ci vedo bene, ma dovrebbe essere questo.
– L’aiuto. Mi dia il suo il biglietto.
Col biglietto in mano, l’anziano ed elegante signore si levò a fatica dalla sua poltro-na, per meglio leggere il numero del posto alla sua destra, ancora libero.
– Non è il suo posto.
– Ho chiesto in prima fila.
– Questa è la prima fila. Può vederlo da sé, gentile signora. Ma il suo posto è dall’altra parte, in fondo. Vede?
L’uomo indicò con un gesto della mano, e con un certo fastidio, cosa intendesse dire. Appariva seccato per quella noia che rischiava di scompigliare la sua quiete: que-stioni di vecchiaia. Ma la bella signora non era da meno in fatto di anni. Le mani puntellate di lentigo senili la dicevano lunga in fatto di età; anche se la tinta d’oro, in verità piuttosto spinta, dei vaporosi ma corti capelli, di molto tradivano l’idea di quanti anni potesse in effetti avere.
Era decisamente attraente, anzi molto bella, con i suoi tratti signorili, abbronzata e con poche rughe. Non sarebbe stato sbagliato immaginare che discendesse da asbur-gici sommovimenti etnici, maturati ben oltre la morte di Francesco Giuseppe nel 1916. All’apparenza, sembrava appartenere alla borghesia mitteleuropea, che nella mia città aveva messo radici nella cultura, negli affari, nei commerci e nelle assicu-razioni. Tradizione e buona genetica, anche nei lineamenti, facevano di quella donna il simbolo di una indiscussa affermazione estetica. In fatto di bellezza femminile e maschile, questa geografica propaggine d’Italia continuava a offrire il meglio di sé, per effetto di amori sognati e poi vissuti con romanzate relazioni, in un crocevia del mondo, del mare, del turismo e degli affari.
L’uomo riconsegnò il biglietto alla donna.
– Si faccia aiutare dal personale di sala – suggerì.
– Perché non mi aiuta lei?
– Gentile signora – replicò l’uomo, calmo quanto bastava per non esplodere in scor-tesie che non gli erano proprie, ma deciso a chiudere quella inopportuna noia pri-ma dell’inizio dello spettacolo – ci tengo a precisare che qui io sono uno spettato-re. E le dico, con orgoglio, in possesso di un abbonamento a posto fisso nella sta-gione prosa. Poi vi aggiunga che sono un signore di una ragguardevole età, piutto-sto irritabile in fatto di colloqui indesiderati. Si faccia aiutare da una maschera.
La signora riprese il suo biglietto senza profferire altro e si accomodò alla destra del suo interlocutore, benché il posto fosse non suo.
– Le ho detto che non è il suo posto.
– Non importa.
– Oh bella! E se vi giunge il legittimo occupante?
– Mi sposterò.
– A spettacolo iniziato?
– Speriamo non accada. C’è ancora tempo per l’inizio.
– Lo spero per lei, se le dovesse accadere di importunarmi nel bel mezzo dello spet-tacolo.
– Non si preoccupi. Non se ne accorgerà nemmeno, mio buon amico.
– Non sono suo amico.
– Dicevo per dire.
– Ma perché qui? Perché vuole sedersi qui?
– Perché si vede meglio. Il mio vero posto sarebbe in fondo alla fila, dall’altra parte, come lei mi ha correttamente spiegato. Ma di lì un pezzo del palcoscenico non lo si vede per colpa di una teletta.
La signora sapeva con esattezza qual era il suo posto; e vi ci si era anche accomoda-ta, per affermare quel che affermava. Perché mai fosse andata a importunare quell’uomo era tutto da scoprire.
– Alla biglietteria poteva chiedere un posto diverso – disse l’altro, con esemplare pazienza.
– Erano tutti esauriti – ribatté lei con una certa supponenza.
– Me ne dolgo.
Il tono dell’anziano signore fu di difficile interpretazione: tra ironico e rassegnato, ma abbastanza eloquente per lasciare intendere che non volesse più essere infastidi-to. Seduto com’era, girò il capo dall’altra parte. Il suo aspetto disegnava in lui un’aria di antica memoria liberty; quel mondo ormai andato in cui persone, mobilio ed edifici si sostenevano in un’aria borghese attenta al gusto e alle professioni na-scenti, ahimè, quasi tutte maschili.

MENZIONE D’ONORE – NOTTURNO 20 di Dario Mochetti Valeri

«Protocolli di emergenza attivi.»
La voce automatica fu a malapena udibile sotto il ruggito dell’atmosfera che bruciava risucchiando la navicella verso la superficie del pianeta. L’esplosione del lander aveva sparato le capsule d’emergenza con una violenza tale che, sommata alla gravità, le rendeva difficile persino tenere gli occhi aperti. Non svenire. Non svenire. Era l’unico pensiero fisso mentre veniva schiacciata contro il sedile. Nessuno di loro era stato addestrato a precipitare per oltre 80km con una spinta del
genere, per di più in avvitamento e a testa in giù.
«Apertura deflettori automatici bloccata. Richiesto azionamento manuale.»
Merda! Non ce l’avrebbe mai fatta.
Cercò di aprire le palpebre ma erano incollate. Vide alcuni flash infuocati, immagini rapide e confuse, l’ozono infiammato fuori dall’oblò, i segnali d’allarme che illuminavano l’abitacolo, il frastuono del turbinio d’aria e fuoco che vorticava attorno alla capsula. La leva era a poca distanza ma il suo braccio sembrava fatto di piombo fuso, pesantissimo e molle. Tentò di sollevarlo e le ricadde al fianco. Merda merda merda! Strinse i denti, ci riprovò. Attorno a lei tutto girava, in un ennesimo
flash vide la mano guantata mancare di poco la leva. Cercò di prendere un respiro profondo ma la pressione contro il petto le rendeva difficile gonfiare i polmoni. Avanti! Avanti! Sentì qualcosa sotto i polpastrelli. Aprì un solo occhio e vide due dita che sfioravano la maniglia. Cercò di afferrarla ruggendo per lo sforzo.
Tlack. «Deflettori aperti manualmente.»
Per un brevissimo istante sentì il corpo leggero, un sollievo improvviso come la se la gravità fosse sparita, fluttuò in quei pochi millimetri di gioco che le cinture di sicurezza le permettevano, per poi venir sbattuta con violenza in avanti per il rinculo dell’improvvisa decelerazione.
«Aaaaah!»
Spalancò gli occhi di colpo, l’ossigeno le riempì i polmoni. La pupilla catturò l’unico raggio di luce che cadeva dall’alto. Era sdraiata a terra, poteva sentire il suolo sotto di lei e l’aria fresca e umida. Sopra di lei un soffitto di pietra si estendeva in tutte le direzioni. Dove sono? Forse era all’interno di una grotta. Come sono finita qui?
Chiuse gli occhi e cercò di fare mente locale e ricordare, ma niente. L’unica cosa che percepì fu una fitta ai lati della testa e una specie di sibilo leggero ma costante nelle orecchie. Era stordita.
Probabilmente doveva aver battuto la testa. Cazzo! Trattene a stento l’istinto di alzarsi. Ricorda l’addestramento. Calma. Prese una boccata d’aria umida e provò a muovere gambe e piedi. Sentì gli stivali toccarsi tra loro. Bene, bene. Apparentemente nessuna lesione spinale. Sollevò le braccia e vide le dita aprirsi e chiudersi correttamente, ognuna al suo posto. Passò una mano guantata sul torso, non sentì alcun oggetto estraneo, né lacerazioni nella tuta. Proseguì verso l’alto e si sfiorò il collo, sembrava dritto, poi passò i polpastrelli guantati sulla visiera del casco, vide la stoffa grigia scorrerle
davanti agli occhi.
«Cazzo!» Rimbombò nella caverna. C’era una crepa, la superficie polimerica era forata.
Dannazione! Aria! Aria! Scattò seduta, si portò istintivamente le mani alla gola, ansimava. Ansimava.
Ansimava? Vuol dire che stava respirando. Distese le braccia rilassando i muscoli. Calma K, niente attacchi di panico, se non ci fosse stata aria sarebbe già morta. Tuttavia l’atmosfera poteva comunque essere potenzialmente nociva, doveva controllare.
«Composizione dell’aria.» Comandò, sul display del PDA all’avambraccio sinistro apparvero le percentuali: azoto 80%, ossigeno 12%, anidride carbonica 2%, elio 1,5% argon 1%, idrogeno 1%, freon 1%, neon 1%, altri gas 0,5%. Nessun gas tossico in quantità nocive, livello radiazioni nella norma. Tirò un sospiro di sollievo, era viva e non sarebbe morta asfissiata o intossicata. Non per l’aria quantomeno.

MENZIONE D’ONORE – SVELAMENTO di Dario Nutini

ESPERIMENTO EDEN
La squadra è riunita nell’acquario, come quasi tutti i giorni. Hanno battezzato così l’ampia sala di controllo adiacente a quella dell’Esperimento Eden. Il nome della sala deriva dallo specchio unidirezionale che permette ai cinque ricercatori di osservare i robot senza essere osservati.
La parete opposta al vetro dell’acquario ospita un orologio che scandisce i minuti dall’inizio di Eden: Art, il matematico del team, lo sta fissando: non vuole perdere il momento in cui 99.999 si tramuterà in 100.000. E’ il settantesimo giorno. Art considera con sollievo che il display non consente di andare oltre 999.999: tra meno di due anni sarà tutto finito, stando almeno al tenue vincolo rappresentato dall’orologio. Finge di non sapere che sarà possibile e probabilmente necessario ricominciare da zero.
I colleghi non sembrano condividere il suo interesse per i numeri. Lina, la biologa, parla a bassa voce con Savio, il prete. Si sono rifiutati tutti di chiamarlo don Savio; del resto Savio, oltre che prete, è anche ingegnere: è una vocazione tardiva, la sua; ma nel team è in veste di prete.
Stanno osservando le stampe che adornano le pareti libere dell’acquario. Che raffigurano, nell’ordine esatto, gli affreschi delle storie della Genesi della navata sinistra del duomo di S. Gimignano, capolavoro di Bartolo di Fredi del 1367. Quelle stampe sono state fermamente volute da Savio all’inizio di Eden: “sono i miei monitor”, suole dire.
Adele, capo del team HW, è china su un vero monitor, uno dei molti che seguono lo stato e l’attività dei robot. L’unica in osservazione allo specchio è Sara, capo del team IA e prima responsabile di
Eden. Sara è la sola autorizzata a interloquire con i robot, attraverso le finestre di dialogo predisposte su un computer; ma anche lei evita di farlo, per non rischiare di influenzarli involontariamente.
In quel momento Eva, il robot convenzionalmente considerato “femmina”, è impegnata a montare una delle sue creature, la tredicesima dall’inizio dell’esperimento. Adamo, il compagno, la sta rifornendo dei pezzi necessari: Eva è l’unica dei due programmata per montare robot, e l’unica che può desiderare farlo.
I ricercatori hanno convenuto di declinare per Eva le parole al femminile, anche se esteriormente i due robot appaiono identici in tutto e, ovviamente, sono asessuati. Il segno per distinguerli è un bollo di vernice gialla sulla calotta di Eva. “L’hanno fatta bionda”, ha commentato Art.
Sara riunisce la squadra al tavolo di lavoro, come da protocollo ogni venerdì pomeriggio. Eden richiede la collaborazione di diverse decine di persone, ma normalmente solo quei cinque operano nella sala di controllo.
− Bene, signori, si apre il consueto bilancio settimanale. La prassi mi impone di rammentarvi le regole di interazione del team, anche se le sapete già: assoluta libertà nella scelta dell’argomento da esporre, assoluta disponibilità ad assistere i compagni nell’argomento da loro scelto, assoluta sincerità. Questa volta do a te l’onore e l’onere di iniziare, Art.
− Vi segnalo che l’orologio ha segnato pochi minuti fa 100.000. Per il resto fumata nera. Nessun tipo di trend è rilevabile. Adamo ed Eva dopo settanta giorni hanno esattamente gli stessi comportamenti e le stesse prestazioni del primo giorno. A parte le minime variazioni nei tempi di montaggio da un robot all’altro, spiegabili con la differenza del modo in cui Adamo presenta i
componenti a Eva.
− Ho già sentito questa osservazione, Art (è Adele a parlare). Ti ho già risposto una volta che sono progettati per lavorare ininterrottamente per una trentina d’anni senza il minimo cedimento.
Sarebbe strano rilevare un degrado dopo settanta giorni.

MENZIONE D’ONORE – ASTRI CARACOLLANTI di Nicola Perasso

Un grammofono tra le mele

Siamo vestigia
di elegiache New York
e infanzie rimpiante.
Lirica sabbia di clessidra
sui marciapiedi della fame.
Fiori del ghetto impigliati nel
filo spinato di Brooklyn. Siamo uno
squillo reiterato tra un flashback ed
un flashforward. Corpi esanimi nella
pioggia, maschere dietro alle sbarre.
Spettri bruciati, ombre nel teatro dell’oppio
e dell’oblio. Siamo valigie celate in una
Grand Central di treni persi. Nello sbriciolarsi
dei sogni c’è la nostalgia di Morricone. Sulla
panna di agognate charlotte russe in lerci
scaloni. Sulle botti di bourbon proibite come gli
orizzonti caffé. Sull’innocenza che inciampa in
pallottole erranti a Water Street. Resta
l’ignara grazia che ferisce da una feritoia.
Un grammofono tra le mele sparse di
un retrobottega. Labbra scarlatte
frementi nel Cantico dei
cantici. Il flauto di Pan nel
fumo del Manhattan Bridge.
Mi – Do – La – Si…
Bang.

MENZIONE D’ONORE – NESSUNO È SOLO SE STESSO di Caterina Perrone

FIRENZE Agosto 1466
Due eserciti premevano ai confini: gli Estensi e gli Sforza. Uno scontro imminente per la supremazia di Firenze.
Il silenzio nella piana opprimeva il cielo estivo più che la calura.
L’inquietudine serpeggiava per le vie dove pochi si attardavano; si camminava rasenti al muro, in attesa che la storia si compisse.
Nonostante il cupo senso di allerta che nulla di buono faceva sperare, in quella mattina balorda si trovarono in un gruppo di amici alla taverna del Monco in Oltrarno. Luogo di berci, di cazzottate; buio, fumoso in ogni stagione, sporco, ingombro di tavolacci e panche; mal frequentato da brutti ceffi, soldati, ricattatori e avanzi di galera.
Vieri ci andò, recalcitrante: come tutti in città era in attesa per l’elezione della Balìa, in allerta per quell’affollarsi di armati alle porte e per le strade di Firenze, che non lo lasciava tranquillo per sé e per Lorenzo.
Dal suo cantuccio guardava gli amici bere, lo ferì sentire che raccontavano di un uomo che s’era approfittato di una giovane donna. Gli scappò una smorfia, e allora Corso che non perdeva occasione per provocarlo: «Che c’è? Mi verresti a dire che non l’avresti fatto anche te? Ah già! tu le donne neanche le tocchi», e fece un gestaccio con la mano.
Vieri non aveva voglia di questionare e rispose con un’alzata di spalle. Ma gli amici li aizzavano così che Corso gli scaraventò contro un boccale di coccio mirando alla testa.
Il tonfo contro il camino generò un silenzio denso da tagliare a fette, perché l’aveva scansato con una mossa fulminea. Quindi Vieri si alzò, lo raggiunse a passi svogliati, lo prese per il bavero, lo trascinò nel mezzo della stanza, perché naturalmente fecero spazio.
Corso lo lasciò fare, cominciava a divertirsi: finalmente lo aveva stanato, già pregustava il suo trionfo. e di sorpresa gli sferrò un pugno dritto in viso che con calma irritante l’amico ancora evitò, e approfittando che l’altro era ancora sbilanciato gliene piantò uno tra il naso e la mascella. Doveva essere molto ben assestato perché lo fermò lì nel mezzo, barcollante e inferocito, tanto che gli si ributtò contro e nello slancio rovinò a terra. Un sorriso maldestro e un commento per non perdere la faccia.
«Te ne approfitti perché sono ubriaco e tu, come sempre, non hai toccato vino.»
Le risate degli amici non s’erano ancora chetate che un gran suono di campane fece balzare tutti dalle panche e infilare la porta come un sol uomo. Per le strade un tumulto di gente che correva alla Signoria.
«Lorenzo, alla testa di un drappello di uomini in armi, è entrato a Firenze dalla porta a San Gallo», disse un uomo che passava.
«L’hanno sentito che gridava: “Viva il popolo” e gli altri lo acclamavano: “Palle, palle!”.»
«È fatta, è fatta!f», gli rispondeva agitando una mano in aria.
Vieri correva davanti a tutti, non voleva perdersi la scena, e faticava a farsi largo tra la gente. Quando lo vide arrivare era già al Bargello. Riuscì ad avvicinarsi, perché lo conoscevano, si mise al suo fianco, dette una pacca al cavallo. Lui si voltò e disse: «Ce l’abbiamo fatta amico», e trottò avanti, tutto preso nel suo ruolo: aveva solo diciassette anni.
C’era una gran festa in piazza e le campane tuonavano; il cancelliere gridava i nomi degli otto di Balìa e la folla rispondeva: «Sì!» ad ognuno di essi.

MENZIONE D’ONORE – RACCONTI FANTASTICI E DELL’ORRORE di Michele Protopapas

OGGETTI
Plumbe era un oggetto e gli oggetti non parlano. Ascoltano, però. Le onde sonore ne fanno vibrare i reticoli cristallini permettendo loro di decifrare i messaggi che trasportano.
Percepiscono anche vibrazioni di diversa natura e comprendono il linguaggio dei morti.
Questi non smettono mai di parlare nel tentativo di comunicare con i propri cari ancora in vita, ma i vivi non possono udirli. Le ombre dei defunti non riescono neanche a percepirsi a vicenda, quindi, sebbene esse popolino la Terra in quantità sterminate, sono convinte di vivere nella più totale solitudine e che nessuno riesca a sentirle.
Gli oggetti, tuttavia, avvertono i loro gemiti e talvolta gli permettono addirittura di impossessarsi di loro e questo è l’unico modo che i morti hanno per comunicare con chi è ancore in vita. La “possessione” è un segreto che in pochi tra i morti conoscono e, non potendo comunicare tra loro, spesso devono essere gli oggetti a trovare il modo di istruirli e invitarli al proprio interno. Plumbe era convinta di sapere come fare perché aveva visto la nonna di Jane possedere il carillon della nipote e riuscire a farne suonare la melodia all’improvviso.
Plumbe era un oggetto, e gli oggetti non hanno il senso del tempo. L’usura agisce su di loro in maniera molto meno marcata di quanto faccia con i corpi dei mortali, ed essi vivono in un eterno presente dove tutto è immutabile e tale dovrebbe restare. Solo i
viventi riescono a variarne la condizione, creandoli, modificandoli o distruggendoli, e forse per questo gli oggetti ne sono ossessionati, li adorano e li temono. Proprio gli stessi sentimenti che i vivi provano nei confronti dell’entità che chiamano “Dio”, e così come gli umani scorgono l’eternità in questo loro Dio, gli oggetti intravedono il fluire del tempo nei viventi. Per Plumbe tutto sarebbe dovuto restare fermo a quando la sua padroncina Jane le confezionava vestiti di carta simili a quelli che indossava lei, le tingeva di giallo i lunghi capelli viola per renderli simili ai suoi e con una penna le disegnava un neo sulla guancia identico al suo.
La bambola era estasiata dall’assomigliare alla sua piccola proprietaria: come ogni oggetto sentiva un che di sublime nel sapersi a immagine del proprio padrone.
Col passare dei mesi, però, le gambe e le braccia di Jane si fecero più lunghe, il suo volto in proporzione si rimpicciolì e i suoi occhi non sembravano più così grandi. Ma non era questo a disturbare la bambola, quanto il fatto che la sua padrona aveva smesso di giocare con lei e la relegasse in un baule assieme alle cose che non utilizzava più. Chissà se anche i pastelli, i lustrini e i nastri per capelli provavano gli stessi sentimenti per Jane?
Ovviamente non avrebbero potuto dirlo giacché gli oggetti non parlano.

MENZIONE D’ONORE – L’EREDITA’ FORTI di Marco Maria Vilucchi

LA TELEFONATA
La telefonata arrivò a metà mattinata, mentre era al lavoro. Numero sconosciuto. Cioè, il numero compariva, era quello di un cellulare, ma non era nella sua rubrica, quindi per lui era uno sconosciuto.
Non gli piaceva parlare con gli sconosciuti e, comunque, probabilmente era qualcuno che voleva vendere qualcosa. Filippo ebbe la  tentazione  di non rispondere, ma poi cambiò idea. Cambiò idea perché il telefono continuava a squillare, nonostante lo avesse lasciato suonare ben oltre i dieci squilli che di solito fanno desistere  chiunque non voglia proprio parlare con te. E con urgenza. Quindi  questo era qualcuno che voleva proprio lui. 
– Pronto. 
– Filippo D’Angelo?  Filippo si innervosì subito, sei tu che mi hai chiamato, dimmi chi  sei, chi sono io lo sai già, visto che mi chiami.  – Lei chi è? – il tono era scocciato. 
– Ciao Filippo, sono il maresciallo Sergio Palozzi, della stazione  dei carabinieri di Ortucchio – pausa.
Ciao Filippo? Questo mi conosce? Da Ortucchio, non presagiva niente di buono. Maresciallo dei carabinieri? Non ho fatto niente. Ebbe voglia di rispondere così.
– Ci conosciamo? – rispose, invece, comunque sempre acido. L’interlocutore fece finta di non aver sentito il tono della risposta.
– Filippo, mi dispiace, ma devo dirti una cosa – fece una pausa, ma Filippo non disse niente, allora riprese – riguarda tuo nonno. Purtroppo stamattina si è sentito male, l’hanno trovato per strada, vicino a casa.  Silenzio. 
– Filippo, tuo nonno è morto. 
Sarebbe stato meglio non rispondere.  Filippo restò ancora in silenzio a metabolizzare la notizia. Sapeva  che prima o poi sarebbe successo. Ma il nonno non era così anziano  da aspettarsi che succedesse da un momento all’altro.
L’ultima volta lo aveva visto al funerale della madre, due anni prima. Era venuto a Roma, a piangere la figlia morta. Nessuno dovrebbe piangere un figlio, aveva detto. Non sapeva neanche chi lo avesse avvertito, visto che lui non gli aveva telefonato, ma, evidentemente,  la rete degli ortucchiesi di Roma si era data da fare. 
Era stato poche ore, giusto il tempo del funerale e di chiedergli per  l’ennesima  volta di tornare ad Ortucchio. E di portare la salma della mamma nella cappella Forti, al cimitero di Ortucchio. Lui aveva solo scrollato ripetutamente la testa, non voleva tornare in quel paese, dove tutti lo avrebbero additato come il figlio di Renato  D’Angelo, colpevole di niente, ma vaglielo a dire.
Non c’erano possibilità che lui tornasse ad Ortucchio, più che non volere, non se la sentiva proprio, neanche per il tempo della tumulazione della madre.  Inoltre, anche se erano passati sedici  anni, era ancora arrabbiato col nonno, perché non aveva difeso abbastanza il padre. Almeno così aveva capito quando, all’età di dieci anni, erano dovuti partire all’alba, fuggendo come ladri, per andare a Roma. In un attimo Filippo, all’età di dieci anni, era stato sradicato da terra, sentiva che il termine giusto era proprio questo, portato via  di peso, ancora semiaddormentato, e trascinato via dalla sua casa, dai suoi amici, dalla sua scuola, dalla sua terra. Adesso, solo due anni dopo la morte della mamma, era morto anche lui, il nonno che, fino al momento della partenza, era stato il  suo idolo.
Ed era morto di primavera. Come la mamma. 
– Filippo dovesti venire – il Maresciallo era ancora al telefono –  c’è il funerale. Ci sono tante pratiche da espletare. Tocca a te. 
– Come ha il mio numero? 
– Me lo aveva dato tuo nonno, in previsione di questo momento –  il Maresciallo cominciava a spazientirsi, certo lui non l’aiutava con  quel tono. Lo trattava come un nemico. 

MENZIONE D’ONORE – BETA TESTER di Carlo Zamburlin

DOMENICA
Io lo so che combattete come soldati. Soldati in prima linea davanti al fronte nemico.
Io lo so che non è facile e che bisogna essere dei veri eroi per farcela oggi. Sono vite frenetiche le nostre. Un sacco di problemi da risolvere, soldi da guadagnare, codici da ricordare, conti da pagare e obiettivi irraggiungibili da raggiungere. E poi tanti, tanti schermi accesi, monitor in ogni angolo che ci proiettano dati, informazioni, e stress. Tanto stress. È un meccanismo rodato a cui non possiamo sfuggire, che dobbiamo accettare, anche se spesso controvoglia. Un sistema con cui convivere.
Dopo la “Seconda Rivoluzione Dirompente” del 2039, tutto è divenuto più frettoloso, veloce, estremo. E questo ci procura ansia, ci trasmette angoscia, giorno dopo giorno, sempre di più. E qual è la conseguenza principale di questo nostro sistema di vita? Qual è
l’invalicabile ostacolo che condiziona il modo in cui affrontiamo ogni singolo giorno dell’esistenza?
Non riusciamo a dormire!
Proprio così. Non riusciamo più a riposare e a sognare. Per molti di noi il sonno è solo un lontano ricordo. La IMC, “Iperstimolazione mentale  cronica”, come l’hanno chiamata i dottori o, come la chiamiamo noi semplici mortali, “la perdita del sonno”, ci devasta.
Non riposiamo la notte e poi siamo stanchi. Sempre stanchi. Nervosi, irrequieti, frettolosi.
Le vedo le vostre occhiaie profonde, i vostri occhi spenti che mi fissano… sembrate un esercito di fantasmi alla ricerca di un letto. Ma
le vostre vite sono ancora lì, 365 giorni all’anno. Loro non smettono mai di richiamarvi all’ordine. Avete una famiglia da mandare avanti, un lavoro che non potete perdere, delle rate da pagare. E allora prendete integratori, vitamine, proteine, energizzanti, anabolizzanti, droghe di ogni genere per cercare di restare lucidi, per avere le energie che non recuperate la notte. Ma fino a quando potremo resistere?

Vedete queste pillole, si chiamano Nightpax e sono il medicinale per dormire più diffuso al mondo. So che lo conoscete, perché il 92% degli Americani assume sonniferi, l’89% della popolazione mondiale soffre di disturbi del sonno e oltre il 60% dei lavoratori convive con emicranie frequenti dovute al mancato riposo e al sovraccarico di informazioni al
cervello.
Vi confido un segreto, ma non ditelo a nessuno eh! Anch’io prendevo queste pastiglie per dormire. Poi ho smesso. Ho trovato una soluzione e ora riposo benissimo, riesco persino a sognare cose straordinarie. E sono venuto qui oggi per condividere con voi questo incredibile successo!
Un applauso intenso e roboante riempie l’ambiente.

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